La sortita di An in difesa dell'identità culinaria nazionale di fronte al diffondersi di nuove cucine multietniche a Recanati, ha suscitato un vespaio di polemiche. Basta andare alla notizia e in fondo leggere gli interventi dei lettori sul contenuto della levata di scudi aennina. Federica Duca, giovane recanatese che ha avuto anche la possibilità di vivere all'estero e confrontarsi con altre culture (anche culinarie), ci ha inviato una sua riflessione, ulteriore contributo al dibattito.

Commento di Federica Duca

Ci si riappropria degli spazi quando questi vengono negati. Stessa logica per gli odori e per la cultura culinaria. Rimane difficile quindi comprendere la preoccupazione di AN superficialmente legata ad un nostalgico ricordo della comune concezione di tradizione, in realtà  in perfetta sintonia con la non accettazione di vivere in un mondo fluido (e non sicuramente per i soli processi di acculturazione, bensì per dinamiche globali ben più complesse) che porta a mettere in discussione le identità nazionali e locali, nonché la validità dell'idea dello stato-nazione come elemento regolatore delle nostre società e identità culturali. Tornando al nostro caso, vien da dire quindi che l'allarmismo sterile di AN e l'esortazione alla ribellione è pura demagogia. In primo luogo nessuno ha negato ai recanatesi o alla cultura italiana gli odori tradizionali, non sicuramente i diversi gruppi sociali che vivono nella città di Recanati. Per questo rifiuto la provocazione che oltretutto ci porta a pensare che la nostra affievolita essenza comunitaria è banalmente misurabile con la capacità di diffondere odori autoctoni, paventando così un' invasione culturale. La xenofobia di Alleanza Nazionale non è assolutamente originale, al contrario propone stereotipi e tropi di lunga data: tra le righe ci dice che tutti gli arabi sono musulmani (un po' come dire che i cattolici sono tutti italiani e vice versa), che il nostro olfatto è sottomesso alla tradizione culinaria araba, in qualche modo ci allarma di una possibile islamizzazione del nostro cibo, lasciando intendere che il terrore è quello di un confronto con il mondo islamico. Nell'articolo ricorre l'immagine del Kebab e dell'Arabia come se questi due elementi fossero consequenzialmente legati. Insomma AN è vittima di ciò che Edward Said (studioso palestino-americano)chiama "Orientalismo", ovvero la percezione del mondo arabo come unica entità, non particolareggiata al suo interno, in cui si parla una sola lingua, si cucina un solo cibo etc. Più semplicemente la paura dell'invasione fa diventare tutti esperti di mondo arabo e Islam da una prospettiva puramente eurocentrica. Ma per essere "politicamente corretti" , come va di moda in un mondo libero qual'è il nostro, AN precisa che la colpa è solo nostra, della debolezza della nostra comunità, perché in realtà va bene accettare l'aspetto esotico di questi cibi laddove ci vengono proposti come garanzia di un multiculturalismo regolato dalla comunità accogliente. In realtà tutto questo esprimere una semplice e banale crisi di identità non sicuramente causata da un'ibridazione culinaria, forse quello che tanto preoccupa chi si sente minacciato è proprio la moltitudine (in quanto soggetto agente) che attraversa le strade delle città e che talvolta ci fa ricordare che la cultura con la C maiuscola non è solo quella ellenica a cui noi facciamo riferimento. In ultima battuta l'igiene: è più che evidente che l' igienizzazione delle nostre città  è fortemente legata all'elemento della paura nella città che nel medioevo era manifestato con il terrore del contagio che ha portato alla nascita di spazi contenutivi per i malati di peste o per tutti coloro che non si allineavano con la morale dell'epoca come ad esempio i vagabondi. Questo è radicato nella non accettazione della diversità. Rifiuto quindi la confusa connessione tra la mancanza di polli ruspanti al mercato con la necessità di igiene e la contaminazione culinaria apportata dal kebab. La necessità d'igiene,
che ha portato ad una regolamentazione eccessiva della nostra vita quotidiana, è sicuramente indotta dalla necessità di far girare l'economia con la vendita di prodotti sterilizzati, di nuovi farmaci etc.. Per questo concludo dicendo che la città è di chi la vive, è di tutti coloro che utilizzano il linguaggio per comunicare e non solo per fornire informazioni, è di tutti coloro che non hanno bisogno di vivere in una città che necessità della creazione di esperienze, rendendo artificiale anche una tradizione.