Non si può negare che alla qualità dei nostri prodotti sia legata non solo la cultura e le radici profonde del nostro “Bel Paese” ma anche la sua immagine nel mondo. Qualche settimana fa, sono sobbalzato nel leggere che una direttiva comunitaria di fatto, permetteva di produrre aranciata senza utilizzare la materia prima, cioè le arance prodotte più che in abbondanza nel sud Italia. Di qualche giorno fa invece, la notizia che la commissione europea autorizza a partire dal prossimo gennaio, la produzione di formaggio senza latte, o meglio prodotto con un suo derivato in polvere, intuibili le nefaste conseguenze per la nostra industria casearia che, dal parmigiano alla mozzarella di bufala, annovera centinaia di prodotti DOC. Come non ricordare poi le polemiche sul divieto di cuocere la pizza nei forni a legna, cosa che avrebbe portato alla cancellazione di 120 anni di storia culinaria italiana o quelle relative al vino rosato che sempre per Bruxelles, è possibile fare semplicemente mescolando vino bianco e rosso e non con uve di una qualità ben specifica. Non si tratta di alzare la bandiera dell’euroscetticismo, ma non si può nemmeno restare indifferenti davanti ad una Europa che, ragionando in termini meramente burocratici, vuol dimenticare le tradizioni e la cultura del nostro come degli altri ventisei paesi che compongono l’Unione. Difendere i nostri prodotti significa innanzitutto tutelare ed accudire le tradizioni millenarie di una nazione che vanta il più alto indice di falsificazione dei propri manufatti e questa difesa è necessaria perché sono anche questi a rappresentare il nostro Paese nel mondo. Le associazioni di categoria e le imprese più avvedute, quelle cioè cresciute come “progetto di vita” e nate dall’intuizione di un operaio intraprendente e geniale e sempre pronte a fare “industria su misura del cliente”, a centinaia nella nostra regione, affiancano da sempre ogni potenziale azione istituzionale nel tentativo di imporre una normativa in Italia ed in Europa che certifichi incontestabilmente la provenienza e la fattura delle merci etichettate come Made in Italy e non temono che questo possa incidere negativamente sui propri bilanci, anzi, sono le prime a pretendere che dall’abbigliamento, dall’arredamento alle calzature, dal vino all’olio, al formaggio, tutto quello che riporta il tricolore sulla confezione, sia effettivamente pensato e realizzato in Italia. Se i “topi” di Bruxelles non riescono ad afferrare la differenza tra un formaggio fabbricato con le polveri e quello realizzato con il latte delle nostre mucche, pazienza, ma questo non mi sembra un buon motivo per universalizzare un pessimo gusto che rischia di cancellare interi distretti di produzione che contribuiscono non solo alla nostra economia, ma alla costruzione della nostra identità nazionale, perché tutelare i marchi italiani promuovendo ed incentivando forme di tracciabilità e certificazione di qualità delle produzioni, significa impegnarsi in modo concreto per l’occupazione del nostro Paese non soltanto per chi lavora nei campi , ma anche per la miriade di piccole e medie aziende del tessile, dell’abbigliamento, dell’argento, della pelletteria, del calzaturiero, dell’alimentare e della ristorazione di qualità. Si dice infatti che un territorio incline al suicidio è quello in cui la politica non dialoga con le imprese. L’impegno è quindi quello di mantenere alto il livello di sensibilizzazione rafforzando ogni azione prodotta in tal senso, dal consiglio provinciale, da quello regionale e dal Parlamento verso il Governo al fine di attivare urgenti misure legislative per promuovere e incentivare forme di tracciabilità e certificazione di qualità che pongano riparo ai continui abusivismi e contraffazioni a tutela delle nostre imprese che creano occupazione e sviluppo e della nostra salute.