In occasione del giorno della memoria la prof.ssa Donatella Donati ha pubblicato sul suo blog un interessante lavoro dello iscrizionescomparso on. Franco Foschi sul grande cabalista ebreo Menechem Recanati, notissimo in tutto il mondo e a cui il comune sta per intitolare una via cittadina

Nato a Recanati, da cui ha preso il cognome, nel XIII secolo, è stato studiato e lo è ancora con grande attezione e interesse. Recentemente Giancarlo Sonnino ha tradotto il suo "libro delle preghiere" che presto sarà pubblicato dal Centro Mondiale della Poesia di Recanati in collaborazione con la casa editrice PHILÆDIT,la stessa che ha fatto lo splendido volume "Recanati iustissima civitas".

IPOTESI SU POSSIBILI FONTI EBRAICHE DELLA CULTURA LEOPARDIANIA

Note su Menechem Recanati (sec. XIII) di Franco Foschi

Da alcuni decenni l’ombra di Menechem mi insegue. Le poche e frammentarie notizie trasmesse dagli storici locali, hanno accresciuto in me la curiosità e gli interrogativi. Poi, mi è nata, quasi una ossessione, la necessità di verificare se in qualche modo le opere del celebre rabbino del XIII secolo fossero note a Giacomo Leopardi e se poterono o no aver lasciato qualche traccia nella sua cultura.

L’importante tradizione della cultura ebraica nelle Marche, come altrove, è stata per troppo tempo sottovalutata o deformata dai pregiudizi.

Nel tempo breve consentito ad una relazione forse inconsueta procederò per sintesi a illustrare i pochi progressi della mia ricerca:

1)  Più di 20 anni fa, in una relazione pubblicata su il Casanostra, rivista recanatese (1979-80), riferii sulle poche notizie derivate dagli storici locali su questo celebre cabalista Menechem ben Benjamin Recanati, morto nel 1290, il più noto esponente della più antica e influente comunità ebraica insediatasi a Recanati.

2)  Solo nel 1986 pubblicai quelle note nel volume Nubiana di provincia di valdivento (Bulzoni ed.). e nel 1990-91 ne discussi con M. Teresa Gentile, che collegò più ampiamente la questione cabalistica con le fonti della cultura leopardiana.

3)  Ma ora, abbandono il racconto cronologico di una ricerca annosa che mi ha consentito di raccogliere una ampia bibliografia, dalla quale la figura di Menechem emerge sempre più ingigantita pur restando coinvolta in un alone di mistero che accresce la curiosità di scoprire i reconditi significati della mistica cabalistica dentro certi pensieri leopardiani.

La notizia di maggiore interesse che ora posso comunicare riguarda un manoscritto di Monaldo Leopardi, relativo agli Scrittori recanatesi, conservato in casa Leopardi. Una pagina è dedicata a Rabbi Menechem (detto Rabbi Rekanati).

Questo dottissimo ebreo recanatese - scrive Monaldo - visse intorno all’anno 1280. In un primo momento aveva scritto 1290, che poi cancellò. Da molte fonti risulta in effetti che nel 1290 morì. Il Peranzoni lo chiama Rabbi Menakeno. Il Calcagni ne riferisce molte notizie. Monaldo dopo aver detto poi delle opere ricordate da quelle fonti così prosegue: “Scrive il Calcagni, scortato da buona autorità, che in tempo di Paolo IV, si abbruciarono in Cremona dodicimila libri talmudici e altri diecimila in Recanati e tra essi molti volumi delle opere di Rabbi Menechem. Qui veramente ci fu il ghetto degli ebrei, almeno fino all’anno 1569, ma non credo che ci avessero una biblioteca tanto numerosa e se fu vero “quell’abrusciamento” di cui negli annali nostri non si vede parola, dovrà trattarsi di libri radunati qui per farne commercio con l’occasione della fiera.

La lapide sepolcrale di Rabbi Menechem Recanati sta murata al rovescio nel vestibolo della nostra cattedrale e nel suo rovescio è scolpita la memoria di una fondazione di Casa Flaminj. Credo che in quell’epitaffio siano indicate le opere del nostro Rabbino ma non conoscendo io la lingua ebraica non ho potuto verificarlo. Potrà farlo il mio figlio Giacomo quando gli piacerà.

Da queste pagine emerge con certezza che:

1.   non solo Monaldo conosceva Menechem e la sua storia, ma soprattutto Giacomo, per quanto egli non ne parli mai.

2.   Nella biblioteca paterna non c’erano opere di Menechem, che diversamente Monaldo le avrebbe indicate nella scheda come ad ogni voce degli scrittori recanatesi annotava, con collocazione e numero. Infatti non ne abbiamo mai trovate.

3.   Sulla esattezza o meno delle notizie di Monaldo, attinte soprattutto dagli storici locali e in specie dal Calcagni, c’è molto da dire, ma lo faremo qui solo per qualche aspetto.

4.   Mi pare interessante aggiungere che in altra opera, in gran parte inedita di Monaldo, Leggi e costumi degli antichi recanatesi un intero capitolo è dedicato agli Ebrei in Recanati. Esso riporta notizie storiche, che in forma più precisa sono state poi riprese negli Annali recanatesi. Quindi, ben prima di Antonio Bravi, di Bernardino Ghetti e di Luigi Federici Monaldo aveva rilevato l’importanza della comunità ebraica a Recanati e il sorprendente fiorire di un personaggio di grande livello, almeno cento anni prima che la presenza degli ebrei a Recanati e nelle Marche assumesse la rilevanza e più nota, per la nascita dei Monti di Pietà e per le attività economico-commerciali.

Per quanto il giudizio di Monaldo sembri spesso inficiato dai pregiudizi correnti sulla cultura ebraica, una nota del tutto inedita del capitolo sugli ebrei nelle Leggi e costumi degli antichi recanatesi mi sembra di grande interesse a conferma delle idee del nobil uomo sulle autonomie comunali, anche rispetto alla chiesa cattolica.

Nel 1427 predicava a Recanati S. Giacomo della Marca, detto allora Fra Giacomo da Monte Prandone. Egli tra l’altro suggerì al Comune di ripristinare l’obbligo per gli ebrei di portare il segno giallo di riconoscimento, ma il Consiglio Comunale rigettò tale proposta. L’insistenza di S. Giacomo sollevò dei subbugli nel popolo.  Monaldo commenta, quando già il predicatore era stato elevato alla gloria degli altari: “sono ben lontano dal censurare le azioni di quel santo glorioso che venero e di cui invoco la protezione ma non lascerò di osservare che i missionari devono predicare liberamente la fede e la morale di Gesù Cristo, ma prima di ingerirsi nelle materie politiche devono concertarsi bene coi magistrati perché altrimenti ignorando essi le circostanze locali, lo zelo loro può facilmente condurli a gravi imprudenze”.

Tornando alla lapide che Monaldo riteneva di Menechem, riferisce Antonio Bravi nelle sue Reminiscenze recanatesi (1878) che nel 1846 i canonici fecero leggere una iscrizione ebraica di quattordici linee, ritrovata allora sul retro di una lapide relativa a un lascito del conte Flaminj. Un Sebastiano Solari, già rabbino di Babilonia, di passaggio a Recanati, la interpretò come la lapide sepolcrale di Menechem. Ma successivamente, inviato il teso al Padre Patrizi gesuita professore di ebraico alla Gregoriana, egli concluse che si trattava della tomba di Salomone figlio di un Menechem, ma soprattutto la lapide era del 1516 e quindi il Menechem non era quello del 1290.

Questo del resto veniva confermato sulla rivista Il vessillo israelitico del 1899 in cui è anche riportata la riproduzione scritta ebraica.

Non sarei sicuro che si trattasse della stessa lapide di cui parlava Monaldo Leopardi e anzi da certi particolari sembra che sia proprio diversa, come diverso è il frammento murato ora al museo diocesano di Recanati. Sono tutti frammenti derivati quasi certamente dal cimitero ebraico di villa Colloredo, dove è probabile comunque che Menechem fosse sepolto.

Per la necessaria brevità di questa comunicazione tralascerò i numerosi particolari che sono andato raccogliendo nel corso degli anni, a cominciare dalla ricerca che ebbi occasione di condurre presso la ricca biblioteca dell’Università di Belfast, durante un mio soggiorno di studi leopardiani. Consultando la Encyclopedia Judaica (vol. 13), The Jewish  Encyclopedia - la Judische Lex  - le notizie inviatemi da Nello Pavoncello. Le opere curate da Eugenio Garin, gli studi fondamentali di Gershom G. Sholem e numerose altre opere quali la storia di Attilio Milano ecc.

La figura di Menechem Recanati si delinea ora in modo molto più chiaro di quanto fosse possibile dai frammentari elementi raccolti dagli studiosi locali recanatesi, tra storia e leggenda.

Ma non c’è dubbio che il contributo più rilevante degli ultimi anni è venuto dalla pubblicazione dei testi di Mistica Ebraica (Einaudi 1995) a cura di Giulio Busi ed Elena Loeventhal.

Anche se sorprende che il Busi non citi in alcun modo la Città di Recanati e si limiti a dire che Menechem (come scriveva il Benedettucci) visse in Italia tra la seconda metà del XIII e gli inizi del XIV secolo, egli aggiunge notizie e giudizi più precisi al poco che si sapeva.

Intanto precisa la fonte della leggenda nota al Calcagni e al Bravi.

Fu il bibliografo cinquecentesco Gedalyah ibn Yahya, che raccontò come Menechem  desiderasse penetrare nei segreti della Torah, benché di intelletto molto limitato e lento nella comprensione.

“Egli moltiplicava i digiuni e la preghiera affinché il cielo ampliasse la sua mente e il suo cuore così da fargli capire la Scrittura”.

“Un giorno, mentre stava pregando durante il digiuno nella sinagoga, s’addormentò ed ecco che un uomo con in mano un recipiente pieno d’acqua, lo svegliò dicendogli: Bevi. Egli si levò e bevve e non aveva ancora terminato di bere tutta l’acqua che all’improvviso quell’uomo scomparve. Menechem allora, come era sua abitudine, si recò a studiare e si accorse che il suo intelletto era diventato lucido e terso, giacché egli si era trasformato in un altro uomo. Compose allora il commento alla Torah e ai precetti”.

Ma più rilevante è il contributo che il Busi ci ha dato con la traduzione del Commento alle dieci sefirot, quasi la chiave del teorema mistico di Menechem Recanati, che concepisce il mondo medievale come l’ombra del mondo superiore, poiché ombra sono i nostri giorni sulla terra. Questa opera,  a giudizio del Busi, insieme al commento alla Torah (ed. princeps Venezia 1523) che è l’unica opera di un cabalista italiano del medioevo diffusa nella diaspora I resporisi legali (hallakah) (1532), denotano una vasta padronanza della letteratura rabbinica e degli insegnamenti del commentatore Zefardita Nahmanide, seguendo una impostazione neoplatonica.

Il Busi conferma che il Commento alle dieci sefirot fu studiato da Giovanni Pico della Mirandola, il quale lo lesse nella traduzione latina che Flavio Mitridate aveva redatto per lui. Ma l’uno e l’altro erano finora rimasti inediti come il Ta amé hama misvot, che con l’aiuto di Andrea Magaretha Bader abbiamo ritrovato a Zurigo e che ora stiamo traducendo per il Centro Nazionale di Studi Leopardiani con l’aiuto di due illustri studiosi d’ebraico antico.

Questo testo, completamente sconosciuto finora in Italia, fu stampato in Basilea nel 1544, Il suo titolo è traducibile come Il senso dei Precetti. Spiega il significato della preghiera ebraica sulla via della quabbalah. Commentando i brani tratti dalla Zahor (spesso in aramaico), il meraviglioso libro dello splendore, il grande classico della quabbalah.

A proposito di Giovanni Pico della Mirandola devo precisare rispetto a mie precedenti relazioni che è vero purtroppo che nella biblioteca di Leopardi non si ritrovano ora le opere, malgrado fossero state catalogate nel 1898; ma è pur vero che Giacomo doveva averle studiate molto di più di quanto sembrava dalla sola lettura dello Zibaldone. Ora che conosco meglio la Storia dell’astronomia, troppo a lungo trascurata e valutata come opera giovanile scolastica, ho trovato ben più ampi riferimenti a Pico, specie nel capitolo introduttivo contro l’astrologia. E’ a proposito dei segni dello zodiaco di cui ebbi a parlare qui a Trieste, che Leopardi introduce una prima nota biblica ed ebraica, citando il Gognet, dicendo che nel libro di Giobbe, “allora quando si nominano i mazzaroth, che compariscono ciascuno nel loro tempo, vengono indicati i segni dello Zodiaco. Di tal sentimento sono pure i Talmudisti, il Rabbino Salomone Isaki, il Pagnini, lo Schindler e l’autore della traduzione francese della Bibbia pubblicata in Colonia nel 1739.

Il riferimento al libro di Giobbe è quello del ca. 38/31-32. Trovo che l’interpretazione che meglio recepisce quei significati dei mazzaroth è quella di Guido Ceronetti:

“Li stringi tu i nodi delle Pleiadi,

Le sciogli tu le catene di Orione?

Dei segni dello Zodiaco regoli tu l’uscita?

L’Orsa e i suoi figli li guidi tu?”.

Tuttavia autorevoli studiosi del libro di Giobbe, come John E. Martley, dichiarano che il significato preciso della parola mazzaroth che alcuni traducono come pianeti, non è conosciuto. La vulgata parla di Lucifero o Venere. Altri scrivono Manzarot e intendono Corona Boreale, o “Circolo dello Zodiaco”.

Non è privo di significato che Giacomo, nella congerie di elementi storici che va esponendo e confutando, si fermi con attenzione sull’interpretazione del libro di Giobbe e lo leghi al consenso dei Talmudisti.

Tra i moderni oppugnatori dell’Astrologia, scrive Giacomo, “sono Giovanni Pico della Mirandola, che 12 interi libri spese a combattere l’astrologia” Dietro al suo esempio, poi, “si die’ a perseguitare le imposture astrologiche Giovanni Francesco Pico di lui nipote”.

Questo richiamo a Pico è quasi il solo che compare in tutte le opere leopardiane. Solo nello Zibaldone vi sono due “curiosità” sulla memoria e sulla vecchiaia di Pico, nonché una nota filologica al commento di Pico alla Canzone dell’amor celeste di Girolamo Benivieni.

In effetti è questo il solo libro riferibile a Pico nella biblioteca Leopardiana. E ancora una volta si apre un punto interrogativo, poiché troppe cose, a cominciare dalla poco commentata Storia dell’Astronomia, richiamano alla memoria gli scritti di Giovanni Pico. Né si può ignorare che egli inglobò nella sua opera scritti di Menechem Recanati che oggi sono meglio identificati e finalmente si cominciano a tradurre.

Ma voglio anche rilevare che un altro autore non citato è Giordano Bruno, che tuttavia per alcuni aspetti potrebbe esser stato una delle tante fonti non dichiarate dalla cultura leopardiana. E anche per questo abbiamo avviato la preparazione per il 2001 di una iniziativa culturale di collaborazione tra il Centro Mondiale della e della Cultura, che ora opera in nome di Leopardi sul colle dell’Infinito, e il Comitato per il centenario di Bruno.

Del resto voglio dire quanto apprezzo i temi odierni perché sono troppi i motivi di riflessione sull’opera Bruniana in cui sono presenti accanto all’ermetismo, alla magia e all’astrologia del rinascimento le nuove esperienze di Copernico, Keplero e poi il Galileo, che li segue come modello. Le riflessioni di Biagio Marin sui caratteri della poesia sono una chiara indicazione delle ragioni del pensiero creativo e innovatore.

Infine, su quella disputa secolare che nel ’500 era ormai alla conclusione e che Eugenio Garin ha definito poeticamente come la polemica sullo “Zodiaco della vita”, Giacomo Leopardi, esprime un giudizio preciso e tutt’altro che scolastico:

“L’astrologia giudiziaria è direttamente opposta alla sana ragione, al parer dei savi filosofi ed ai santi dogmi della Cattolica Fede. Con tutto ciò essa ha prodotto qualche bene. Ne’ i secoli barbari, quando le scienze non avevano attrattiva, il desiderio di saper l’avvenire ha occupato il cuore dell’uomo, ed ha sostenuto in qualche modo l’astronomia.

Ciò serve a provare, che non v’è quasi alcun male, dal quale non tragga origine qualche bene”.

Dunque un Leopardi razionale e ancora ligio al dogma cattolico ma anche saggio: ciò che conta è che anche l’errore possa aver contribuito al progresso scientifico dell’astronomia.

Man mano nei capitoli successivi della Storia dell’astronomia gli argomenti si fanno più stringenti e rigorosi, ma sullo sfondo si intravede sempre la traccia sottile del “cielo dei poeti” raccontato dall’Abbé Pluche che Giacomo aveva letto e la solida condanna dei pregiudizi astrologi. Anche per le grandi figure di scienziati ammirati, come Giandomenico Cassini, il Giovane Giacomo non risparmia la critica: “... Non seppe da principio distinguere l’astronomia dall’astrologia. Cassini andava ad esser vittima de’ pregiudizi e della ignoranza, quando il suo impegno straordinario e la sua soda pietà lo riscossero”. E fu soprattutto - dice Giacomo - la lettura dell’eccellente opera di Pico della mirandola contro gli astrologi, che lo portò a ritenere che “l’arte di predire non poeta essere chimerica... Così rinunciò all’astrologia e bruciò l’estratto, ma in fondo l’astrologia gli aveva consentito di conoscere l’astronomia”.

Dunque ancora una volta Giacomo cita Pico con grande elogio e mostra di conoscerne l’opera e riaccende il desiderio di approfondire meglio le ricerche su questo capitolo oscuro dei suoi studi di cui non v’è traccia nella biblioteca paterna.

C’è però il commento di Pico alle opere di Gerolamo Benivieni, con il ripetuto richiamo ai cabalisti e il riferimento alla infinità dei mondi, che a sua volta non può non sucitare il desiderio di leggere Menechem Recanati che influenzò come ormai è ammesso, il pensiero di Pico.

In Casa Leopardi infatti ho trovato la preziosa edizione della Canzone d’amore del Benivieni con commento di Pico della Mirandola. Il Benivieni aveva composto la sua canzone ispirandosi al Ficino. Pico la commenta cercando di precisare la sua posizione riguardo al platonismo ficiniano. In realtà non è che un preludio al Simposio, come nota E. Garin e Pico lo usò in varie altre sedi, a cominciare dall’Heptaplus.

Pico usò le traduzioni latine di Menechem fattegli da Flavio Mitridate per le sue 899 tesi, che quasi per un decimo erano cabalistiche.

Aveva conosciuto Mitridate a Perugia quando si curava le ferite subite per il rapimento di Margherita. Mitridate gli insegnava l’ebraico, l’arabo e il caldaico.

Specie quest’ultima lingua oggi detta aramaico, serviva per la cabala. Mitridate, convinto che comunicava una traduzione segreta voleva che Pico fosse solo in casa durante le sue lezioni e traduzioni orali.

Si sa comunque che Pico passò serii guai anche dopo morto, per la cabala, che gli fece attribuire la definizione di principe-mago. Lo difese l’amico del cuore e poi compagno di tomba G. Benivieni, che negò con ogni forza questa accusa. Giacomo Leopardi comunque leggeva il Benivieni e non poteva non amare quella orazione di Pico, la De Hominis dignitate, che Garin giustamente definisce il manifesto del rinascimento.

Un nuovo capitolo di ricerca si è aperto su scienza e cabala, nel momento stesso in cui anche negli studi leopardiani si è data nuova attenzione al fondamento scientifico del pensiero e della poesia di questo grande genio europeo.

Esemplare è in proposito il saggio recente di Giorgio Israel (1994) il quale analizza il senso vero della cabala come lotta senza quartiere al mito, alla luce delle teorie di G. Scholem, ma anche delle nuove prospettive studiate da Idel .

Giorgio Israel (matematico alla sapienza di Roma e Direttore delle Riviste di storia delle scienze), cita in particolare Menechem Recanati per la sua esemplare capacità di pervenire a conclusioni radicali, sotto il manto della tradizione. Il Recanati sostiene la identificazione radicale tra Dio e parola. Le lettere sono il corpo mistico di Dio e perciò Dio sta alla parola come l’anima sta al corpo.

Non è il caso qui né io saprei, di discutere sulla simbologia del misticismo cabalistico e i suoi rapporti con la lettura dei testi biblici, ma noterò solo come Scholem ritenga una delle idee fondamentali della Kabbalah quella del reciproco intreccio di tutti i mondi e di tutti gli infiniti gradi dell’essere: tutto è contenuto in tutto. Come diceva già Mosé Cordovero: “Lì dove tu stai stanno a loro volta tutti i mondi”, ma mi sembra che abbia ragione di notare Giorgio Israel che il tema della catena infinita dell’Essere è fondamentale nella formazione del pensiero scientifico moderno, come aveva già scritto nel 1936 A. E. Lovejoy. Ma anche questo tema ci riporta a Leopardi.

Un aspetto che in questo secolo talora è sfociato nell’esplicito riconoscimento che il maggior problema delle scienze è quello che si riferisce alla trasformazione della materia morta in materia vivente (vedi G. Ciamiecian,  chimico).

Sui rifiuti a vedere queste verità si è costruita la separazione tra il mondo di qualità nel quale viviamo e amiamo vivere e quello delle quantità geometrico-matematiche, separato dal mondo della vita, in cui non c’è posto per l’uomo.

Nella ricerca di un superamento della crisi della ragione, giustamente Scholem ritiene che un aspetto originale del pensiero Kabbalistico - anche di Menechem Recanati - sia nella visione del mondo come un intreccio di infiniti linguaggi.

Ora non siamo più così sorpresi che nelle sue celebri lezioni americane Calvino avesse attribuito rilevante parte nelle sue sei proposte per il prossimo millennio al Leopardi, il cui miracolo è stato nel togliere al linguaggio ogni peso fino a farlo assomigliare alla luce lunare. Definendo la scrittura come metafora della sostanza pulviscolare del mondo, Calvino cita la lunga tradizione di pensatori che va da Lucrezio a Ramón Llull, alla Kabbala dei rabbini spagnoli e a quella di Pico della Mirandola fino a Keplero per i quali i segreti del mondo erano contenuti nella combinatoria dei segni della scrittura. Non so se Calvino sapesse di Menechem Recanati.

Noi non sappiamo ancora se Giacomo Leopardi conobbe l’opera di Menechem, ma certo conosceva la fama delle sue opere, che lo stesso Monaldo aveva accuratamente annotato, intrecciate come erano con i movimenti ereticheggianti del Trecento recanatese. Ma Giacomo aveva di certo letto le opere di Girolamo Benivieni, commentate da Pico della Mirandola, in cui il richiamo ai cabalisti e - tra l’altro - all’infinità dei mondi è molti esplicito. Quello che poi va emergendo sempre di più è lo studio profondo che il Leopardi fece dei testi biblici, nonché il significato misterioso del silenzio e il legame cosmico tra musica e parola, lingua, stile e poesia e il ricorrere di tante immagini e pensieri che da quelle pagine furono ispirati. Basta pensare al Cantico del gallo silvestre e ai richiami a Giobbe, al Qoeleth, al Cantico dei Cantici.

C’è un filo sottile che sostiene la teoria dei segreti del mondo contenuti nella combinatoria dei segni della scrittura. Ai primordi luce e linguaggio si confondono e non si può non sentire qui il fascino leopardiano di quella luce che diventa poesia. Sono anche per questo grato a M. Teresa Gentile, per quel capitolo del suo importante saggio Leopardi e la forma della vita che ha dedicato all’analisi della poesia di Leopardi e la suggestione della mistica ebraica (Kabbalà).

In definitiva credo ancora oggi che vi sia un aspetto esplicitamente culturale da esaminare nel caso del Menechem scrittore e uno che è riferibile a quella che oggi gli antropologi, da Frazer a Mauss, chiamerebbero di cultura implicita, legata alle credenze, prive di razionalità apparente, ma spesso condizionanti le norme di comportamento, per precise motivazioni sociali, come hanno dimostrato gli antropologi funzionalisti. Questa sorta di cultura implicita, lascia tracce durature nelle radici di una comunità.

In questo senso io credo che vadano riconsiderati come elementi di cultura anche episodi storici confinanti nella disputa teologica e dei processi religiosi. Esempio concreto è la vicenda degli idolatri recanatesi, secondo il Rotolo vaticano del 1320 studiato da P. Mariano da Alatri, passato inosservato agli studiosi locali del passato.

Non è un caso che gli idolatri del 1320 fossero i capi ghibellini più accaniti e i protagonisti delle più feroci vicende politico-militari di cui furono teatro Marche e Umbria durante il pontificato di Giovanni XXII (1316-1334). Non escluderei l’opportunità di ricerca di possibili rapporti con Menechem Recanati, ma soprattutto mi pare evidente che non di ingenua idolatria si trattasse, ma di modelli sostitutivi ritenuti idonei a soppiantare i valori su cui poggiava la cultura medioevale e carolingia e quindi sostanzialmente di tentativi di avvio di una cultura alternativa, che si collegava al nascere di una nuova “civiltà” nel senso proprio della parola.

La nuova civiltà si andava esprimendo a Recanati, tra il ’200 e il ’300, in quel rapporto tra patrimonio culturale e ambiente sociale cittadino, da cui nascevano le norme di convivenza e gli statuti comunali e prima ancora e forse contemporaneamente, quelli delle corporazioni, delle fraternite, dei collegi di arti e professioni.

Non starò qui ad elencare numero e caratteristiche di queste istituzioni, ma sono convinto che esse non possono essere considerate solo per gli scopi specificati negli statuti in materia religiosa, assistenziale e professionale.

Esse, tutte, rappresentano un fatto di cultura nuova, una nuova cultura che nasce, un nuovo rapporto tra gli uomini, una nuova conoscenza del diritto, la fine reale della società medioevale e il fondamento delle norme comunali, nelle quali pure si esprime una cultura che, nel senso di Burkhardt diventa pressoché sinonimo di civiltà.

Un grande poeta e pensatore come Giacomo Leopardi riassume in sé la cultura dei secoli che lo hanno preceduto e anticipa il tempo futuro sentendo alitare nel nulla il soffio dell’Infinito per dirla con M. Teresa Gentile.

E’ questo in fondo un buon motivo per partire dal Poeta per cercare di capire, al di là delle cose note, il significato segreto del linguaggio della mistica ebraica che è parte della nostra cultura, italiana ed europea e che mi auguro riusciremo a comprendere meglio superando per sempre antichi pregiudizi e scoprendo il fascino di un mondo ricondotto alle ragioni della vita umana trasformando come è scritto nella antologia dello Zohar di Menechem Recanati, le parole nuove “in nuovo cielo e nuova terra”.