Di Paolo Pierini

Care compagne, cari compagni, amiche ed amici democratici,  vi scrivo sull’onda dell’entusiasmante risultato referendario, al quale, insieme e non da soli, abbiamo contribuito: com’era bella la sinistra unita nella campagna per il SI, in piazza, tra la gente, in sintonia con il proprio popolo, al fianco di associazioni e movimenti che hanno promosso i quesiti e ne rimangono gli indiscussi titolari.Pierini_Paolo

Vi confesso che, pur avendo sottoscritto le richieste, al momento della raccolta delle firme ero scettico sull’utilità dello strumento referendario e sul suo possibile esito. Mi sbagliavo, e di grosso. Credo che una delle doti fondamentali per chi si occupa di politica a qualsiasi livello, sia quella di ammettere i propri errori e imparare da essi, ottenendone nuova linfa per la lettura e l’analisi dei processi. Al di là dei partiti, attorno alla consultazione referendaria, e alle grandi questioni che essa poneva, è cresciuta una mobilitazione spontanea, è tornata la voglia, quasi l’ansia, di partecipare, di dire la propria, di “esserci”. Di nucleare, di acqua pubblica, di giustizia, si parlava nei bar, nei luoghi di lavoro, nei circoli, nelle palestre, come non accadeva da tempo. E le persone hanno affrontato lunghi viaggi per recarsi alle urne nei propri luoghi di residenza.

Quale differenza rispetto alle elezioni provinciali! Al ballottaggio, meno della metà dei maceratesi ha partecipato al voto; tenendo conto dell’astensionismo, e dei consensi raccolti dal suo avversario, il Presidente della Provincia è stato eletto con il 24% degli aventi diritto al voto: a questa percentuale corrispondono i 71.000 suffragi raccolti da Pettinari. Ebbene, nella tornata referendaria, i SI sono stati in media quasi il doppio, sfiorando i 135.000, il 55% dell’intero corpo elettorale: una mobilitazione massiccia e imprevedibile. Pensavamo che la data della consultazione, per molti italiani (tra cui noi) la terza in un mese, avrebbe scoraggiato l’affluenza; era questo sicuramente l’intento di chi ha fissato quella data a ridosso dell’estate. Nella nostra provincia non è stato così, tutt’altro: i cittadini, sfiduciati e delusi da un ballottaggio tra due figure troppo simili tra loro, sono tornati in massa ad esprimersi su temi rilevanti per la condizione materiale di tutti.

Proprio questa partecipazione imponente deve metterci in guardia da interpretazioni parziali dell’esito referendario, da letture tutte “politiciste”, fatte solo in termini di sconfitta di Berlusconi e di tenuta o implosione della maggioranza di governo. Certo, lo “schiaffo” per il centro destra è stato forte, ma proprio noi che facciamo politica dobbiamo resistere alla tentazione di limitarci a questo: perché il referendum è stato soprattutto un pronunciamento di merito su aspetti fondamentali della nostra epoca. Il 12 e 13 giugno la maggioranza assoluta degli italiani (26 milioni, cifra enorme in tempi di sistema maggioritario, basti pensare che l’attuale maggioranza ha stravinto le ultime elezioni con 17 milioni di voti) ha decretato la fine delle politiche neoliberiste, ha riaffermato il primato dei beni e servizi pubblici, ha sancito l’epilogo di una idea di società finora dominante, fondata sull’illusione che il profitto privato possa garantire l’interesse collettivo. Con l’esito referendario il “pensiero unico” del mercato viene spazzato via: certo, il berlusconismo è stato, nell’ultimo ventennio, la declinazione più importante del liberismo nel nostro paese, ma non è stata la sola. Pensiamo a quante privatizzazioni dell’acqua e dei servizi pubblici sono state avviate e compiute da amministrazioni di centrosinistra in regioni come la Toscana, l’Emilia-Romagna, le stesse Marche, regioni nelle quali (non a caso) si sono registrate le più elevate percentuali di votanti e di SI.

Quindi il referendum indica anzitutto la strada da seguire sul piano dei contenuti, delinea i contorni precisi di un “programma di governo” sul quale la maggioranza assoluta degli italiani non è disposta a fare passi indietro: primato dei beni comuni e dei diritti collettivi sul profitto individuale, sviluppo compatibile dal punto di vista ambientale, uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e istituzioni che garantiscano effettivamente questa uguaglianza.

E’ una svolta politica epocale, anche sul piano culturale. Niente è più come prima. Ma non è tutto. Perché i referendum (e la recenti amministrative) indicano anche un metodo, un percorso di costruzione dell’alternativa alle destre e al berlusconismo, che (non scordiamolo) è morente ma non è morto. La strada della partecipazione diretta dei cittadini alle scelte e alla costruzione delle alleanze: è infatti insieme con quei 26 milioni di cittadini che il centrosinistra deve fondare una nuova idea di società e organizzare una rappresentanza politica, una coalizione in grado di portarla avanti. Non più nel recinto nascosto delle segreterie, magari rincorrendo alleanze innaturali che non mobilitano, non entusiasmano e non rispecchiano la volontà popolare, ma alla luce del sole, nelle piazze, nei nuovi luoghi della politica (come la rete), in un rapporto paritario e fecondo con i movimenti. In questo il PD, che resta il cardine di una possibile nuova stagione politica, ha una grande responsabilità, come tutti noi. In Italia tira aria nuova: se il PD sarà in grado di accompagnare questo ritrovato protagonismo della società civile, senza tentazioni egemoniche o spinte autoreferenziali, ma mettendo a disposizione tutta la propria forza politica e organizzativa (come è avvenuto a Milano), allora la primavera italiana potrà far crescere fiori variopinti e piante dalle radici robuste.

E tutto il centrosinistra non deve temere di farsi contaminare da questa voglia di democrazia diretta, indisponibile a vecchie forme di delega, di aprirsi alla complessità e pluralità che c’è fuori dai partiti. Non dobbiamo aver paura di spalancare le finestre al vento fresco della partecipazione: bisogna evitare a tutti i costi di tornare alle alchimie da ceto politico, a programmi e accordi fabbricati da ristrette oligarchie e calati dall’alto. La posta in gioco è troppo elevata: vivere una stagione nuova o perdere un’altra occasione di cambiamento. Non possiamo permetterci di sbagliare ancora.

Permettetemi di concludere questa lettera con alcune frasi, che non sono di Vendola o di Ferrero, ma sono state pronunciate recentemente da Debora Serracchiani, importante esponente del PD: “Non c’è bisogno di Casini per parlare ai moderati – dice Serracchiani – e neppure di ancore a sinistra, ma di programmi di sinistra. Viviamo in un paese dove conviene di più possedere che lavorare, con le rendite finanziarie tassare al 12.5% quando in Europa è il 20% e in Gran Bretagna il 23%. Ci vogliono le primarie aperte a tutto il centrosinistra”.